Rocco Chinnici
Un Giudice Moderno
I
l 9 aprile del 1966 si insedia al Tribunale di Palermo, VIII Sezione dell’Ufficio Istruzione, un giovane magistrato: Rocco Chinnici. Giovane, ma con non poca esperienza sul campo: dodici anni presso la Pretura di Partanna, in provincia di Trapani. Dodici anni trascorsi amministrando la giustizia – penale e civile – in mezzo alla gente, come piace a lui.
Rocco Chinnici nasce a Misilmeri, alle porte di Palermo, il 19 gennaio 1925. Si forma nel capoluogo siciliano, completando gli studi superiori negli anni della Seconda Guerra Mondiale presso il Liceo Classico Umberto I e poi frequentando la Facoltà di Giurisprudenza mentre, per dare sostegno economico alla famiglia nei difficilissimi anni del Dopoguerra, lavora come Procuratore presso l'Ufficio del Registro di Misilmeri. Proprio nel paese d’origine conosce la giovanissima professoressa Agata Passalacqua, lì per un incarico alla scuola media, che sarebbe presto diventata sua moglie.
Nel 1952 Rocco Chinnici vince il concorso in Magistratura e viene assegnato al Tribunale di Trapani per i due anni di uditorato. Subito dopo assume l’incarico presso la Pretura di Partanna. Proprio in quel periodo nasce la prima figlia Caterina. Questa lunga tappa professionale, che lo porta a diretto contatto con la cittadinanza, segna profondamente la sua personalità, dandogli la possibilità di esercitare le sue grandi doti umane e professionali e di stabilire con la popolazione locale una eccezionale sintonia che lo spinge a ritardare la partenza verso un ufficio giudiziario più grande.
In quel felice periodo nascono anche gli altri due figli del Magistrato: Elvira e Giovanni. Rocco Chinnici, chiamato da tutti “Lu Preturi”, diventa sempre più spesso la persona alla quale rivolgersi per avere un aiuto o anche soltanto per ricevere una parola di conforto. La sua mole imponente e l’atteggiamento in apparenza distaccato si sciolgono in calorose strette di mano e affettuosi sorrisi di comprensione e solidarietà.
Ciononostante Chinnici non viene meno ai doveri che la sua professione gli impone. Condanna quando si deve condannare, sempre con umanità, cercando di comprendere le ragioni dei comportamenti sbagliati per dare alla pena una portata rieducativa, per capire dove e come agire affinché quei reati non si ripetano. Per le feste non manca mai una visita e qualche piccolo dono ai carcerati.
Dopo qualche anno il lavoro di Chinnici riscontra un successo pieno: “Prima che io andassi via da Partanna – affermava spesso con orgoglio e con ammirazione per quella cittadinanza che aveva colto perfettamente il suo messaggio – gli unici reati erano qualche caso di abigeato (furto di bestiame) e di pascolo abusivo”.
Soltanto nel 1966 Rocco Chinnici cede alle ormai improcrastinabili istanze di crescita professionale e – a malincuore – lascia la cittadina di Partanna per trasferirsi a Palermo. Da quel momento comincia ad occuparsi di delicati processi di mafia tra cui, nel 1970, quello per la cosiddetta “strage di viale Lazio”. Nel 1975 consegue la qualifica di magistrato di Corte d’Appello ed è nominato Consigliere Istruttore Aggiunto.
Quattro anni dopo, nel 1979, è designato Consigliere Istruttore e inizia a dirigere da titolare l’ufficio in cui opera da tredici anni. Proprio in questo periodo le istituzioni italiane cominciano a vacillare sotto i colpi di una mafia ormai divenuta talmente potente e sfrontata da sfidare apertamente lo Stato: nel 1979 a perire per mano di Cosa Nostra è Cesare Terranova, l’anno dopo Gaetano Costa, con loro un elenco apparentemente senza fine di politici, poliziotti, carabinieri, giornalisti e semplici cittadini.
In questo contesto drammatico Chinnici ha una intuizione che fa di lui un magistrato particolarmente moderno: sapendo che il giudice è vulnerabile perché se viene ucciso vengono vanificati anche i risultati delle sue indagini, crea nel suo ufficio dei veri e propri gruppi di lavoro (mossa allora rivoluzionaria), dando forma a quello che sarà poi definito “pool antimafia”. Accanto a sé vuole – tra gli altri – due giovani magistrati: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che verrà assegnato proprio a quella VIII Sezione fino a qualche anno prima di Chinnici. Con loro getta le basi delle prime indagini che porteranno ai più importanti processi di mafia degli anni Ottanta. Per tutti, il “Rapporto dei 162”, considerato il nocciolo primordiale del futuro primo Maxi-Processo.
L’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo diviene, sotto la guida di Chinnici, un esempio di efficiente organizzazione giudiziaria: “Un mio orgoglio particolare – rivelava allora il Magistrato – è una dichiarazione degli investigatori americani secondo cui l’Ufficio Istruzione di Palermo è un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre magistrature d’Italia. I magistrati dell’Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo e battagliero”.
Ma Rocco Chinnici non esaurisce la sua attività all’interno delle aule giudiziarie. Riprendendo quel contatto diretto con la gente che aveva caratterizzato il suo lavoro di pretore a Partanna tanti anni prima, ripropone la figura del magistrato impegnato a sensibilizzare in senso antimafioso l’opinione pubblica e le istituzioni. Nel periodo del flagello dell’eroina la sua attenzione si rivolge ai giovani, verso i quali nutre una naturale propensione e un paterno e sincero affetto, in decine d’incontri nelle scuole, impegnando così i suoi – ormai rari – intervalli di tempo libero.
È nel pieno di questa attività professionale, sociale e culturale che il 29 luglio 1983, mentre s’accinge a salire sulla sua autovettura di servizio ferma davanti al portone dello stabile in cui vive, in via Giuseppe Pipitone Federico a Palermo, viene investito dall’esplosione causata da una 126 radiocomandata imbottita di tritolo. È la prima autobomba che, ponendo fine vigliaccamente alla vita del Giudice, segna l’ulteriore e drammatico inasprirsi della strategia di Cosa Nostra. Assieme al Magistrato perdono la vita il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi e i due carabinieri della scorta, Salvatore Bartolotta e Mario Trapassi.
Intervista tratta da
“I Siciliani”, marzo 1983
Lillo Venezia
Signor giudice, lei ha ricevuto minacce di morte?
L’interlocutore sorride e per un attimo resta a guardarci con curiosità come se noi avessimo posto una domanda per scherzo. Sembra quasi voglia capire fin dove la nostra domanda possa essere ritenuta candida e non ci sia invece una punta di impercettibile sarcasmo. Continua a sorridere, però amabilmente. Fa uno strano gesto interrogativo a sua volta e risponde con una domanda: «Lei che ne pensa?»
Stiamo parlando con il giudice istruttore di Palermo, dottor Rocco Chinnici. Siamo a Siracusa in una giornata di sole e di vento subito dopo la conclusione del convegno «I giovani siciliani contro la mafia». Siamo usciti da un teatro che era gremito da almeno duemila studenti, abbiamo ancora negli orecchi e soprattutto nell’animo migliaia, decine di migliaia di parole che abbiamo ascoltato, talune inutili, altre retoriche, altre sinceramente appassionate, altre infine serie e importanti. Parole di giovani che hanno espresso il loro pensiero sulla mafia, sulla necessità di una lotta che va condotta anzitutto nelle coscienze, sui metodi stessi della lotta. In Sicilia negli ultimi mesi ci sono stati decine di convegni del genere, in cui sono state spese milioni di parole, quasi sempre le stesse. E’ come se tutta la società siciliana urlasse il suo sdegno, il suo dolore, la sua ribellione alla violenza mafiosa. Ma nella realtà tutto appare retorico: che i siciliani siano onestamente, disperatamente contro la mafia, è chiaro e saputo. Bisogna capire, e ancora stiamo cercando di capire, come i siciliani possano essere contro la mafia, con quali idee, con quali proposte, con quale intransigenza. Soprattutto i giovani. In questo stato d’animo continuiamo il nostro discorso con il giudice Chinnici, uno dei magistrati che più acutamente, con maggiore intelligenza anche giuridica, sta cercando di condurre la sua lotta. E’ un uomo che non indietreggia. Sa che ogni giudice è nel mirino della mafia e sa esattamente che, se vuole continuare ad essere giudice, cioè a campare con la sua intatta dignità di magistrato e di uomo, deve accettare questo pericolo.
– Giudice Chinnici, la mafia ha colpito ancora una volta e sempre con l’identica ferocia, un altro magistrato, Ciaccio Montalto, un magistrato che da anni era in prima linea nella zona di fuoco di Trapani, per la quale passa buona parte del contrabbando di droga. Era un giudice che sapeva di poter essere assassinato. Perché allora si è fatto cogliere solo e indifeso? Anche Terranova e Costa vennero colti soli e indifesi, ma erano altri tempi. Sono trascorsi due anni ma è come se fossero trascorsi due secoli. Perché Ciaccio Montalto si è fatto cogliere così indifeso?
«E’ una domanda difficile. Io opero in una sede giudiziaria diversa e quindi anche in un contesto diverso. Per quanto riguarda la protezione fisica del magistrato posso dirle che negli ultimi tempi a Palermo sono stati compiuti notevoli progressi: ci sono diverse auto blindate a disposizione, e sono anche molti gli uomini disponibili per la scorta armata. Comunque sufficienti. E’ difficile oggi ammazzare un giudice a Palermo, o comunque ucciderlo come è stato ucciso Ciaccio Montalto. Per quanto io sappia anche a Trapani ci dovrebbe essere un’auto blindata a disposizione dei magistrati. Si tratta ora di capire perché non venne utilizzata.»
– A parte l’auto blindata, resta il fatto che il giudice assassinato era solo, senza scorta.
«Spesso accade che un giudice, da solo, abbia più mobilità, più possibilità quindi di sfuggire a un agguato. Ma queste sono ipotesi. Io conoscevo Ciaccio Montalto per il suo coraggio e soprattutto per l’impegno che egli poneva contro la criminalità politica. Per lui non solo il terrorismo, ma anche la mafia era criminalità politica. Ebbi occasione di discutere questo aspetto del nostro lavoro pochi giorni prima che fosse assassinato, proprio al convegno di coordinamento fra magistrati impegnati in questo tipo di lotta. Ed era soprattutto un magistrato il quale credeva in una profonda riforma dei metodi di lotta alla mafia. Era convinto che uno strumento essenziale di lotta alla mafia fosse la cosiddetta legge La Torre. La mafia ne avrebbe subito un colpo mortale.»
– Ecco, giudice, ma secondo lei che ogni giorno si ritrova dinnanzi questa forza oscura e crudele che sembra onnipossente nella nostra società, cos’è realmente la mafia?
«Potrei darle un semplice giudizio storico, e dirle che da 150 anni ci trasciniamo questo fenomeno mortale nato fondamentalmente dalla necessità di difendere comunque la proprietà, e dunque anche il privilegio, contro qualsiasi stravolgimento della società, dal banditismo, alle scorrerie dei briganti, alla miseria dei contadini che si trasformavano in predoni, alla stessa evoluzione della società. La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo da difendere, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi. La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza.»
– E in questa definizione, in questa immagine è possibile inserire l’ipotesi di un connubio costante fra mafia e politica?
«La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere. Se lei mi vuole chiedere come questo rapporto di complicità si concreti, con quali uomini del potere, con quali forme di alleanza criminale, non posso certo scendere nel dettaglio. Sarebbe come riferire della intenzione o della direzione di indagini.»
– Nella intervista resaci il mese scorso dalla figlia del generale Dalla Chiesa, la giovane donna affermò senza mezzi termini che l’assassinio del padre era stato un fatto politico e che anche il dopo assassinio viene manovrato da una sorta di grande puparo politico, una specie di grande vecchio della mafia, in altre parole un burattinaio che tira le fila della mafia. Può essere che egli sia a Palermo, può essere che sia a Roma. Lei è d’accordo?
«Non so in quale contesto Rita Dalla Chiesa situi questo personaggio, a quali livelli di potere, e con quali interessi. Non basta una definizione del genere. Bisognerebbe chiarire o comunque approfondire questo pensiero. Una cosa è certa, e su questo sono d’accordo con Rita Dalla Chiesa: esiste una connessione profonda fra mafia e politica, e può anche essere che l’assassinio del prefetto sia soprattutto un delitto politico. Può essere, ripeto, ma non è detto che lo sia! E’ stato detto tutto e il contrario di tutto, anche che Dalla Chiesa sia stato ucciso perché oramai sapeva troppe cose, oppure anche perché voleva fare troppe cose. Per ogni ipotesi può cambiare il mandante.»
– Ecco, torniamo alla legge La Torre. Lei ritiene veramente che essa abbia questa straordinaria validità che molti magistrati le attribuiscono?
«Senza dubbio! La legge antimafia recentemente approvata è certamente uno strumento di eccezionale validità, soprattutto se utilizzata con vigore, lucidità, intelligenza e implacabile decisione. Essa permette infatti l’uso di mezzi e strumenti che possono colpire il mafioso nel cuore stesso della sua attività: le indagini nelle banche, il controllo sugli appalti e sub-appalti. C’è un’altra norma particolare e importante che mette in condizione il magistrato di procedere contro il criminale per il semplice reato di associazione mafiosa, quando un cumulo di affari e di solidarietà a delinquere possa configurare questo particolare tipo di reato. Insomma nel passato, ras mafiosi notoriamente riconosciuti come tali e coinvolti in tutti i loschi affari, riuscivano quasi sempre a sfuggire alla giustizia per la mancanza o la certezza delle prove. Molti mafiosi che erano sicuramente autori degli omicidi imputati riuscivano a cavarsela con una assoluzione dubitativa. Non solo tornavano in libertà, ma il loro prestigio risultava sempre accresciuto. Ora c’è la possibilità di incriminarli egualmente per il reato di associazione mafiosa che consente quanto meno di paralizzare la violenza dell’individuo e portarlo dinnanzi alla giustizia. Ma onestamente la sola legge La Torre non basta a contenere il fenomeno mafioso e aggredirlo in tutte le sue manifestazioni: abbiamo bisogno di mezzi che non siano soltanto giuridici, ma debbono essere anche strumenti concreti di lotta, intendo dire l’aumento dell’organico nelle varie sedi giudiziarie, l’aumento degli stessi organici di polizia giudiziaria attualmente insufficienti a far fronte alle necessità. Basti dire che gli organici giudiziari di Palermo sono gli stessi di quindici anni fa al cospetto di una criminalità organizzata che ha moltiplicato invece la sua potenza. Infine è necessario istituire la banca dei dati, ed è questa una drammatica necessità che abbiamo rappresentato anche al Capo dello Stato proprio in occasione dei funerali del povero Ciaccio Montalto. Oramai la mafia ha ramificazioni in tutta Italia, conseguenza di quella sciagurata politica del confino, che non solo non eliminava il mafioso dalla società, ma lo metteva in condizione di inquinare un territorio fin’allora sano della nazione. Spedire un mafioso in Toscana, o Piemonte, o Veneto e pensare che se ne stesse quieto a fare il bravo cittadino fu una illusione micidiale. Il mafioso resta tale in qualsiasi tempo e contrada e dovunque egli si trovi continuerà a esercitare la sua attività criminale. Se non ha alleanze, se le trova, se non ha complici li cerca. Inquina, ammala, contagia. Con l’istituto del confino abbiamo esportato la mafia in tutto il Paese e quindi esiste la necessità di uno strumento più moderno, appunto la banca dei dati, che metta in condizione di sapere istantaneamente chi sono i personaggi implicati nei vari delitti mafiosi e quali eventuali collegamenti possano esserci fra di loro. Lo Stato deve intervenire concretamente e con spirito moderno anche nella struttura tecnica della lotta. Finora è stata fatta quasi sempre soltanto accademia. Viviamo in una società malata di cui non conosciamo le proporzioni della malattia, la gravità, le dimensioni del contagio. Pensi che, dopo tanti anni, abbiamo potuto capire che i miliardi sperperati mafiosamente nel Belice non erano soltanto due, ma otto. E forse i conti dovranno ancora crescere.»
– Crede in una legge sul mafioso pentito, cioè una legge che possa dare gli stessi risultati di quella sul terrorista pentito?
«Io non credo al pentimento del mafioso. Il mafioso è un personaggio diverso dal terrorista. Il mafioso è un individuo che si porta appresso da sempre la vocazione alla violenza e al crimine. Non ha senso morale, e quindi non può avere pentimento. Tuttavia può esserci un mafioso che sapendo di essere stato condannato a morte da un gruppo avversario, per scampare alla condanna si aggrappi disperatamente all’unica forza possibile che possa proteggerlo, cioè proprio allo Stato e alla Giustizia che ha sempre disprezzato. La Giustizia è la sua ultima spiaggia. In tal senso può essere utile e opportuno prevedere una congrua diminuzione di pena per un mafioso il quale sia deciso a contribuire alla Giustizia purché naturalmente il suo contributo sia effettivo e valido. Ben venga quindi una legge sui mafiosi pentiti. Non premierà una redenzione morale ma una collaborazione dettata dal terrore. Ma tutto è utile per lottare la mafia.»
– Il giudice Ciaccio Montalto è stato ucciso prima ancora di potere concludere delle indagini decisive sul contrabbando della droga, cioè di avere elementi decisivi che si sarebbe portato appresso nella sua nuova sede di Firenze. Quale è stata la reazione dei giudici del trapanese: rassegnazione, collera, impotenza, paura?
«Paura e rassegnazione mai. Dalla morte del loro collega i giudici di Trapani hanno tratto motivo umano e morale per continuare, anzi per accanirsi maggiormente nella lotta e proseguire le indagini in tutte le direzioni. La reazione a Trapani è stata la stessa che ha praticamente esaltato i giudici di Palermo dopo le ultime terrificanti imprese della mafia nella capitale. Questo è un messaggio onesto e chiaro e cosciente che posso lanciare alla mafia: Noi giudici siciliani non ci arrenderemo mai. Non avremo mai rassegnazione o paura. Per ognuno che cade ce ne sono altri dieci disposti a proseguire con maggiore impegno, coraggio, determinazione.»
– Nel suo intervento dinnanzi alla assemblea dei giovani studenti di Siracusa lei ha voluto soprattutto sottolineare il pericolo della droga. Anche questo vuole essere un messaggio?
«Io credo nei giovani. Credo nella loro forza, nella loro limpidezza, nella loro coscienza. Credo nei giovani perché forse sono migliori degli uomini maturi, perché cominciano a sentire stimoli morali più alti e drammaticamente veri. E in ogni caso sono i giovani che dovranno prendere domani in pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare. Quando io parlo ai giovani della necessità di lottare la droga, praticamente indico uno dei mezzi più potenti per combattere la mafia. In questo tempo storico infatti il mercato della droga costituisce senza dubbio lo strumento di potere e guadagno più importante. Nella sola Palermo c’è un fatturato di droga di almeno quattrocento milioni al giorno, a Roma e Milano addirittura di tre o quattro miliardi. Siamo in presenza di una immane ricchezza criminale che è rivolta soprattutto contro i giovani, contro la vita, la coscienza, la salute dei giovani. Il rifiuto della droga costituisce l’arma più potente dei giovani contro la mafia.»
– Le rifacciamo la domanda: Riceve molte minacce, ha paura?
Nemmeno stavolta il giudice Chinnici risponde. Il sorriso è lo stesso di prima, enigmatico, con una punta impercettibile di ironia, forse di malinconia. E’ un uomo, e come qualsiasi essere umano non può non avere paura. Ma è anche un giudice con l’orgoglio, la coscienza morale di essere un giudice. Cioè un uomo che agisce sempre nel nome del popolo, una moltitudine senza fine che è però sempre un’entità astratta. Un giudice, soprattutto un giudice siciliano in Sicilia, è anche sempre un uomo solo. Orgogliosamente solo.
Rocco Chinnici
Un Giudice Moderno
I
l 9 aprile del 1966 si insedia al Tribunale di Palermo, VIII Sezione dell’Ufficio Istruzione, un giovane magistrato: Rocco Chinnici. Giovane, ma con non poca esperienza sul campo: dodici anni presso la Pretura di Partanna, in provincia di Trapani. Dodici anni trascorsi amministrando la giustizia – penale e civile – in mezzo alla gente, come piace a lui.
Rocco Chinnici nasce a Misilmeri, alle porte di Palermo, il 19 gennaio 1925. Si forma nel capoluogo siciliano, completando gli studi superiori negli anni della Seconda Guerra Mondiale presso il Liceo Classico Umberto I e poi frequentando la Facoltà di Giurisprudenza mentre, per dare sostegno economico alla famiglia nei difficilissimi anni del Dopoguerra, lavora come Procuratore presso l'Ufficio del Registro di Misilmeri. Proprio nel paese d’origine conosce la giovanissima professoressa Agata Passalacqua, lì per un incarico alla scuola media, che sarebbe presto diventata sua moglie.
Nel 1952 Rocco Chinnici vince il concorso in Magistratura e viene assegnato al Tribunale di Trapani per i due anni di uditorato. Subito dopo assume l’incarico presso la Pretura di Partanna. Proprio in quel periodo nasce la prima figlia Caterina. Questa lunga tappa professionale, che lo porta a diretto contatto con la cittadinanza, segna profondamente la sua personalità, dandogli la possibilità di esercitare le sue grandi doti umane e professionali e di stabilire con la popolazione locale una eccezionale sintonia che lo spinge a ritardare la partenza verso un ufficio giudiziario più grande.
In quel felice periodo nascono anche gli altri due figli del Magistrato: Elvira e Giovanni. Rocco Chinnici, chiamato da tutti “Lu Preturi”, diventa sempre più spesso la persona alla quale rivolgersi per avere un aiuto o anche soltanto per ricevere una parola di conforto. La sua mole imponente e l’atteggiamento in apparenza distaccato si sciolgono in calorose strette di mano e affettuosi sorrisi di comprensione e solidarietà.
Ciononostante Chinnici non viene meno ai doveri che la sua professione gli impone. Condanna quando si deve condannare, sempre con umanità, cercando di comprendere le ragioni dei comportamenti sbagliati per dare alla pena una portata rieducativa, per capire dove e come agire affinché quei reati non si ripetano. Per le feste non manca mai una visita e qualche piccolo dono ai carcerati.
Dopo qualche anno il lavoro di Chinnici riscontra un successo pieno: “Prima che io andassi via da Partanna – affermava spesso con orgoglio e con ammirazione per quella cittadinanza che aveva colto perfettamente il suo messaggio – gli unici reati erano qualche caso di abigeato (furto di bestiame) e di pascolo abusivo”.
Soltanto nel 1966 Rocco Chinnici cede alle ormai improcrastinabili istanze di crescita professionale e – a malincuore – lascia la cittadina di Partanna per trasferirsi a Palermo. Da quel momento comincia ad occuparsi di delicati processi di mafia tra cui, nel 1970, quello per la cosiddetta “strage di viale Lazio”. Nel 1975 consegue la qualifica di magistrato di Corte d’Appello ed è nominato Consigliere Istruttore Aggiunto.
Quattro anni dopo, nel 1979, è designato Consigliere Istruttore e inizia a dirigere da titolare l’ufficio in cui opera da tredici anni. Proprio in questo periodo le istituzioni italiane cominciano a vacillare sotto i colpi di una mafia ormai divenuta talmente potente e sfrontata da sfidare apertamente lo Stato: nel 1979 a perire per mano di Cosa Nostra è Cesare Terranova, l’anno dopo Gaetano Costa, con loro un elenco apparentemente senza fine di politici, poliziotti, carabinieri, giornalisti e semplici cittadini.
In questo contesto drammatico Chinnici ha una intuizione che fa di lui un magistrato particolarmente moderno: sapendo che il giudice è vulnerabile perché se viene ucciso vengono vanificati anche i risultati delle sue indagini, crea nel suo ufficio dei veri e propri gruppi di lavoro (mossa allora rivoluzionaria), dando forma a quello che sarà poi definito “pool antimafia”. Accanto a sé vuole – tra gli altri – due giovani magistrati: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che verrà assegnato proprio a quella VIII Sezione fino a qualche anno prima di Chinnici. Con loro getta le basi delle prime indagini che porteranno ai più importanti processi di mafia degli anni Ottanta. Per tutti, il “Rapporto dei 162”, considerato il nocciolo primordiale del futuro primo Maxi-Processo.
L’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo diviene, sotto la guida di Chinnici, un esempio di efficiente organizzazione giudiziaria: “Un mio orgoglio particolare – rivelava allora il Magistrato – è una dichiarazione degli investigatori americani secondo cui l’Ufficio Istruzione di Palermo è un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre magistrature d’Italia. I magistrati dell’Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo e battagliero”.
Ma Rocco Chinnici non esaurisce la sua attività all’interno delle aule giudiziarie. Riprendendo quel contatto diretto con la gente che aveva caratterizzato il suo lavoro di pretore a Partanna tanti anni prima, ripropone la figura del magistrato impegnato a sensibilizzare in senso antimafioso l’opinione pubblica e le istituzioni. Nel periodo del flagello dell’eroina la sua attenzione si rivolge ai giovani, verso i quali nutre una naturale propensione e un paterno e sincero affetto, in decine d’incontri nelle scuole, impegnando così i suoi – ormai rari – intervalli di tempo libero.
È nel pieno di questa attività professionale, sociale e culturale che il 29 luglio 1983, mentre s’accinge a salire sulla sua autovettura di servizio ferma davanti al portone dello stabile in cui vive, in via Giuseppe Pipitone Federico a Palermo, viene investito dall’esplosione causata da una 126 radiocomandata imbottita di tritolo. È la prima autobomba che, ponendo fine vigliaccamente alla vita del Giudice, segna l’ulteriore e drammatico inasprirsi della strategia di Cosa Nostra. Assieme al Magistrato perdono la vita il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi e i due carabinieri della scorta, Salvatore Bartolotta e Mario Trapassi.
Intervista tratta da
“I Siciliani”, marzo 1983
Lillo Venezia
Signor giudice, lei ha ricevuto minacce di morte?
L’interlocutore sorride e per un attimo resta a guardarci con curiosità come se noi avessimo posto una domanda per scherzo. Sembra quasi voglia capire fin dove la nostra domanda possa essere ritenuta candida e non ci sia invece una punta di impercettibile sarcasmo. Continua a sorridere, però amabilmente. Fa uno strano gesto interrogativo a sua volta e risponde con una domanda: «Lei che ne pensa?»
Stiamo parlando con il giudice istruttore di Palermo, dottor Rocco Chinnici. Siamo a Siracusa in una giornata di sole e di vento subito dopo la conclusione del convegno «I giovani siciliani contro la mafia». Siamo usciti da un teatro che era gremito da almeno duemila studenti, abbiamo ancora negli orecchi e soprattutto nell’animo migliaia, decine di migliaia di parole che abbiamo ascoltato, talune inutili, altre retoriche, altre sinceramente appassionate, altre infine serie e importanti. Parole di giovani che hanno espresso il loro pensiero sulla mafia, sulla necessità di una lotta che va condotta anzitutto nelle coscienze, sui metodi stessi della lotta. In Sicilia negli ultimi mesi ci sono stati decine di convegni del genere, in cui sono state spese milioni di parole, quasi sempre le stesse. E’ come se tutta la società siciliana urlasse il suo sdegno, il suo dolore, la sua ribellione alla violenza mafiosa. Ma nella realtà tutto appare retorico: che i siciliani siano onestamente, disperatamente contro la mafia, è chiaro e saputo. Bisogna capire, e ancora stiamo cercando di capire, come i siciliani possano essere contro la mafia, con quali idee, con quali proposte, con quale intransigenza. Soprattutto i giovani. In questo stato d’animo continuiamo il nostro discorso con il giudice Chinnici, uno dei magistrati che più acutamente, con maggiore intelligenza anche giuridica, sta cercando di condurre la sua lotta. E’ un uomo che non indietreggia. Sa che ogni giudice è nel mirino della mafia e sa esattamente che, se vuole continuare ad essere giudice, cioè a campare con la sua intatta dignità di magistrato e di uomo, deve accettare questo pericolo.
– Giudice Chinnici, la mafia ha colpito ancora una volta e sempre con l’identica ferocia, un altro magistrato, Ciaccio Montalto, un magistrato che da anni era in prima linea nella zona di fuoco di Trapani, per la quale passa buona parte del contrabbando di droga. Era un giudice che sapeva di poter essere assassinato. Perché allora si è fatto cogliere solo e indifeso? Anche Terranova e Costa vennero colti soli e indifesi, ma erano altri tempi. Sono trascorsi due anni ma è come se fossero trascorsi due secoli. Perché Ciaccio Montalto si è fatto cogliere così indifeso?
«E’ una domanda difficile. Io opero in una sede giudiziaria diversa e quindi anche in un contesto diverso. Per quanto riguarda la protezione fisica del magistrato posso dirle che negli ultimi tempi a Palermo sono stati compiuti notevoli progressi: ci sono diverse auto blindate a disposizione, e sono anche molti gli uomini disponibili per la scorta armata. Comunque sufficienti. E’ difficile oggi ammazzare un giudice a Palermo, o comunque ucciderlo come è stato ucciso Ciaccio Montalto. Per quanto io sappia anche a Trapani ci dovrebbe essere un’auto blindata a disposizione dei magistrati. Si tratta ora di capire perché non venne utilizzata.»
– A parte l’auto blindata, resta il fatto che il giudice assassinato era solo, senza scorta.
«Spesso accade che un giudice, da solo, abbia più mobilità, più possibilità quindi di sfuggire a un agguato. Ma queste sono ipotesi. Io conoscevo Ciaccio Montalto per il suo coraggio e soprattutto per l’impegno che egli poneva contro la criminalità politica. Per lui non solo il terrorismo, ma anche la mafia era criminalità politica. Ebbi occasione di discutere questo aspetto del nostro lavoro pochi giorni prima che fosse assassinato, proprio al convegno di coordinamento fra magistrati impegnati in questo tipo di lotta. Ed era soprattutto un magistrato il quale credeva in una profonda riforma dei metodi di lotta alla mafia. Era convinto che uno strumento essenziale di lotta alla mafia fosse la cosiddetta legge La Torre. La mafia ne avrebbe subito un colpo mortale.»
– Ecco, giudice, ma secondo lei che ogni giorno si ritrova dinnanzi questa forza oscura e crudele che sembra onnipossente nella nostra società, cos’è realmente la mafia?
«Potrei darle un semplice giudizio storico, e dirle che da 150 anni ci trasciniamo questo fenomeno mortale nato fondamentalmente dalla necessità di difendere comunque la proprietà, e dunque anche il privilegio, contro qualsiasi stravolgimento della società, dal banditismo, alle scorrerie dei briganti, alla miseria dei contadini che si trasformavano in predoni, alla stessa evoluzione della società. La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo da difendere, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi. La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza.»
– E in questa definizione, in questa immagine è possibile inserire l’ipotesi di un connubio costante fra mafia e politica?
«La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere. Se lei mi vuole chiedere come questo rapporto di complicità si concreti, con quali uomini del potere, con quali forme di alleanza criminale, non posso certo scendere nel dettaglio. Sarebbe come riferire della intenzione o della direzione di indagini.»
– Nella intervista resaci il mese scorso dalla figlia del generale Dalla Chiesa, la giovane donna affermò senza mezzi termini che l’assassinio del padre era stato un fatto politico e che anche il dopo assassinio viene manovrato da una sorta di grande puparo politico, una specie di grande vecchio della mafia, in altre parole un burattinaio che tira le fila della mafia. Può essere che egli sia a Palermo, può essere che sia a Roma. Lei è d’accordo?
«Non so in quale contesto Rita Dalla Chiesa situi questo personaggio, a quali livelli di potere, e con quali interessi. Non basta una definizione del genere. Bisognerebbe chiarire o comunque approfondire questo pensiero. Una cosa è certa, e su questo sono d’accordo con Rita Dalla Chiesa: esiste una connessione profonda fra mafia e politica, e può anche essere che l’assassinio del prefetto sia soprattutto un delitto politico. Può essere, ripeto, ma non è detto che lo sia! E’ stato detto tutto e il contrario di tutto, anche che Dalla Chiesa sia stato ucciso perché oramai sapeva troppe cose, oppure anche perché voleva fare troppe cose. Per ogni ipotesi può cambiare il mandante.»
– Ecco, torniamo alla legge La Torre. Lei ritiene veramente che essa abbia questa straordinaria validità che molti magistrati le attribuiscono?
«Senza dubbio! La legge antimafia recentemente approvata è certamente uno strumento di eccezionale validità, soprattutto se utilizzata con vigore, lucidità, intelligenza e implacabile decisione. Essa permette infatti l’uso di mezzi e strumenti che possono colpire il mafioso nel cuore stesso della sua attività: le indagini nelle banche, il controllo sugli appalti e sub-appalti. C’è un’altra norma particolare e importante che mette in condizione il magistrato di procedere contro il criminale per il semplice reato di associazione mafiosa, quando un cumulo di affari e di solidarietà a delinquere possa configurare questo particolare tipo di reato. Insomma nel passato, ras mafiosi notoriamente riconosciuti come tali e coinvolti in tutti i loschi affari, riuscivano quasi sempre a sfuggire alla giustizia per la mancanza o la certezza delle prove. Molti mafiosi che erano sicuramente autori degli omicidi imputati riuscivano a cavarsela con una assoluzione dubitativa. Non solo tornavano in libertà, ma il loro prestigio risultava sempre accresciuto. Ora c’è la possibilità di incriminarli egualmente per il reato di associazione mafiosa che consente quanto meno di paralizzare la violenza dell’individuo e portarlo dinnanzi alla giustizia. Ma onestamente la sola legge La Torre non basta a contenere il fenomeno mafioso e aggredirlo in tutte le sue manifestazioni: abbiamo bisogno di mezzi che non siano soltanto giuridici, ma debbono essere anche strumenti concreti di lotta, intendo dire l’aumento dell’organico nelle varie sedi giudiziarie, l’aumento degli stessi organici di polizia giudiziaria attualmente insufficienti a far fronte alle necessità. Basti dire che gli organici giudiziari di Palermo sono gli stessi di quindici anni fa al cospetto di una criminalità organizzata che ha moltiplicato invece la sua potenza. Infine è necessario istituire la banca dei dati, ed è questa una drammatica necessità che abbiamo rappresentato anche al Capo dello Stato proprio in occasione dei funerali del povero Ciaccio Montalto. Oramai la mafia ha ramificazioni in tutta Italia, conseguenza di quella sciagurata politica del confino, che non solo non eliminava il mafioso dalla società, ma lo metteva in condizione di inquinare un territorio fin’allora sano della nazione. Spedire un mafioso in Toscana, o Piemonte, o Veneto e pensare che se ne stesse quieto a fare il bravo cittadino fu una illusione micidiale. Il mafioso resta tale in qualsiasi tempo e contrada e dovunque egli si trovi continuerà a esercitare la sua attività criminale. Se non ha alleanze, se le trova, se non ha complici li cerca. Inquina, ammala, contagia. Con l’istituto del confino abbiamo esportato la mafia in tutto il Paese e quindi esiste la necessità di uno strumento più moderno, appunto la banca dei dati, che metta in condizione di sapere istantaneamente chi sono i personaggi implicati nei vari delitti mafiosi e quali eventuali collegamenti possano esserci fra di loro. Lo Stato deve intervenire concretamente e con spirito moderno anche nella struttura tecnica della lotta. Finora è stata fatta quasi sempre soltanto accademia. Viviamo in una società malata di cui non conosciamo le proporzioni della malattia, la gravità, le dimensioni del contagio. Pensi che, dopo tanti anni, abbiamo potuto capire che i miliardi sperperati mafiosamente nel Belice non erano soltanto due, ma otto. E forse i conti dovranno ancora crescere.»
– Crede in una legge sul mafioso pentito, cioè una legge che possa dare gli stessi risultati di quella sul terrorista pentito?
«Io non credo al pentimento del mafioso. Il mafioso è un personaggio diverso dal terrorista. Il mafioso è un individuo che si porta appresso da sempre la vocazione alla violenza e al crimine. Non ha senso morale, e quindi non può avere pentimento. Tuttavia può esserci un mafioso che sapendo di essere stato condannato a morte da un gruppo avversario, per scampare alla condanna si aggrappi disperatamente all’unica forza possibile che possa proteggerlo, cioè proprio allo Stato e alla Giustizia che ha sempre disprezzato. La Giustizia è la sua ultima spiaggia. In tal senso può essere utile e opportuno prevedere una congrua diminuzione di pena per un mafioso il quale sia deciso a contribuire alla Giustizia purché naturalmente il suo contributo sia effettivo e valido. Ben venga quindi una legge sui mafiosi pentiti. Non premierà una redenzione morale ma una collaborazione dettata dal terrore. Ma tutto è utile per lottare la mafia.»
– Il giudice Ciaccio Montalto è stato ucciso prima ancora di potere concludere delle indagini decisive sul contrabbando della droga, cioè di avere elementi decisivi che si sarebbe portato appresso nella sua nuova sede di Firenze. Quale è stata la reazione dei giudici del trapanese: rassegnazione, collera, impotenza, paura?
«Paura e rassegnazione mai. Dalla morte del loro collega i giudici di Trapani hanno tratto motivo umano e morale per continuare, anzi per accanirsi maggiormente nella lotta e proseguire le indagini in tutte le direzioni. La reazione a Trapani è stata la stessa che ha praticamente esaltato i giudici di Palermo dopo le ultime terrificanti imprese della mafia nella capitale. Questo è un messaggio onesto e chiaro e cosciente che posso lanciare alla mafia: Noi giudici siciliani non ci arrenderemo mai. Non avremo mai rassegnazione o paura. Per ognuno che cade ce ne sono altri dieci disposti a proseguire con maggiore impegno, coraggio, determinazione.»
– Nel suo intervento dinnanzi alla assemblea dei giovani studenti di Siracusa lei ha voluto soprattutto sottolineare il pericolo della droga. Anche questo vuole essere un messaggio?
«Io credo nei giovani. Credo nella loro forza, nella loro limpidezza, nella loro coscienza. Credo nei giovani perché forse sono migliori degli uomini maturi, perché cominciano a sentire stimoli morali più alti e drammaticamente veri. E in ogni caso sono i giovani che dovranno prendere domani in pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare. Quando io parlo ai giovani della necessità di lottare la droga, praticamente indico uno dei mezzi più potenti per combattere la mafia. In questo tempo storico infatti il mercato della droga costituisce senza dubbio lo strumento di potere e guadagno più importante. Nella sola Palermo c’è un fatturato di droga di almeno quattrocento milioni al giorno, a Roma e Milano addirittura di tre o quattro miliardi. Siamo in presenza di una immane ricchezza criminale che è rivolta soprattutto contro i giovani, contro la vita, la coscienza, la salute dei giovani. Il rifiuto della droga costituisce l’arma più potente dei giovani contro la mafia.»
– Le rifacciamo la domanda: Riceve molte minacce, ha paura?
Nemmeno stavolta il giudice Chinnici risponde. Il sorriso è lo stesso di prima, enigmatico, con una punta impercettibile di ironia, forse di malinconia. E’ un uomo, e come qualsiasi essere umano non può non avere paura. Ma è anche un giudice con l’orgoglio, la coscienza morale di essere un giudice. Cioè un uomo che agisce sempre nel nome del popolo, una moltitudine senza fine che è però sempre un’entità astratta. Un giudice, soprattutto un giudice siciliano in Sicilia, è anche sempre un uomo solo. Orgogliosamente solo.
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